Coronavirus, ripartire da agricoltura tradizionale
Più contagi dove sono presenti sistemi intensivi. Ecco lo studio dell’Università di Firenze
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Nelle aree dove resistono sistemi di agricoltura tradizionale si registrano una minore diffusione del virus: dai 9 ai 594 casi in media. È quanto emerge dallo studio condotto dal laboratorio CULTLAB della Scuola di Agraria dell’Università di Firenze in collaborazione con la segreteria scientifica dell’Osservatorio Nazionale del Paesaggio Rurale. Lo studio mette in relazione il numero di casi di Coronavirus registrati sul territorio nazionale e i modelli di agricoltura presenti nelle varie zone del Paese, evidenziando una maggiore incidenza del virus, da 4.150 fino a 8.676 casi, nelle zone agricole periurbane e ad agricoltura intensiva, in particolare nelle aree della Pianura Padana, del fronte adriatico dell’Emilia Romagna, della valle dell’Arno tra Firenze e Pisa, e nelle zone intorno a Roma e Napoli, dove si registra un più alto livello di meccanizzazione, impiego della chimica e agroindustria e maggiori interrelazioni con urbanizzazione e inquinamento.
«Ci siamo occupati di indagare la relazione tra i casi di Coronavirus rispetto ad un tema poco esplorato – dichiara il professor Mauro Agnoletti, coordinatore del progetto e responsabile scientifico del programma della FAO per la tutela dei Paesaggi agricoli di rilevanza mondiale – che interessa non solo all’Italia, cioè il territorio rurale. Eppure, l’agricoltura è considerata un servizio essenziale particolarmente in questo momento di crisi. È quindi importante capire il rapporto fra i modelli di agricoltura e la diffusione del virus anche in vista del ripensamento del modello di sviluppo passata l’emergenza».
Quattro i modelli di agricoltura presi in considerazione dallo studio: aree agricole urbane e periurbane, aree ad agricoltura intensiva (es. Pianura Padana), aree con agricoltura a media intensità energetica (dove si praticano sistemi tradizionali) e aree con agricoltura a bassa intensità energetica (tipicamente nelle zone di montagna del centro-nord, nella collina rurale meridionale e in alcune aree di pianura del sud e delle isole). Considerato il dato medio nazionale della diffusione del Coronavirus, pari a 47 casi ogni 100 kmq, nelle aree ad agricoltura intensiva l’intensità del contagio sale a 94 casi ogni 100 kmq, mentre nelle aree ad agricoltura non intensiva il dato scende a 32 casi ogni 100 kmq.
Il caso della Pianura Padana (province di Alessandria, Asti, Bergamo, Biella, Bologna, Brescia, Como, Cremona, Cuneo, Ferrara, Forlì-Cesena, Gorizia, Lecco, Lodi, Mantova, Milano, Modena, Monza e della Brianza, Novara, Padova, Parma, Pavia, Piacenza, Pordenone, Ravenna, Reggio nell’Emilia, Rimini, Rovigo, Torino, Treviso, Udine, Varese, Venezia, Vercelli, Verona, Vicenza) è particolarmente esemplificativo: qui si concentra il 61% delle aree ad agricoltura intensiva di tutto il Paese e fa registrare il 70% dei casi COVID-19 in Italia. Ma con una distribuzione differente a seconda dei modelli agricoli praticati: nelle aree della Pianura Padana ad agricoltura intensiva si registrano 138 casi ogni 100 kmq, mentre in quelle ad agricoltura non intensiva la media scende a 90 casi ogni 100 kmq.
Le aree a media e bassa intensità energetica, dove sono concentrate il 68% delle superfici protette italiane, risultano invece meno colpite dal Covid-19. Queste aree sono distribuite soprattutto nelle zone medio collinari, montane alpine ed appenniniche, caratterizzate da risorse paesaggistiche, naturalistiche ma anche culturali, storiche e produzioni tipiche legate a criteri qualitativi più che quantitativi. Il modello di agricoltura, detto altrimenti, riflette uno stile di vita diverso rispetto a quello delle zone ad alta intensità energetica. Proponendo una interessante prospettiva sul futuro soprattutto. «Questo tipo di organizzazione – produttiva, economica e sociale – potrebbe rappresentare un modello di sviluppo da cui ripartire una volta passata l’emergenza», commenta Agnoletti.
Si tratta di sistemi agricoli che possono garantire sicurezza alimentare, oltre allo sviluppo equilibrato di attività terziarie legate al turismo, all’agriturismo, al commercio, ai servizi e ai prodotti tipici. Sistemi che la FAO, attraverso il programma GIAHS, con la collaborazione dell’Italia, ha l’obiettivo di tutelare e promuovere in Italia e nel mondo e che potrebbero rivelarsi utili per la “fase 2” e la ricostruzione che seguirà il post-virus.